ragione I

Lo scopo di questo libro è di offrire una nuova prospettiva – e con essa infondere nuova speranza e nuovo coraggio – a coloro che sono turbati dalla violenza e dall’irrazionalità del nostro tempo. La maggior parte dei capitoli erano nella loro veste originaria conferenze, cosicché nella loro prosa si avvertono il ritmo e forse qua e là le ripetizioni del discorso parlato.

Non dovrò scusarmi per questo loro carattere, se, allo stesso tempo, essi evocheranno, come una vera conferenza, un continuo dialogo tra l’oratore e il suo pubblico. Poiché non è per presentare una soluzione già pronta ai problemi del nostro tempo, ma per suggerire un atteggiamento e una filosofia capaci di affrontarli che ho riunito in libro questi miei pensieri.


Se questo saggio fosse stato pubblicato cent’anni fa, il suo titolo, persino in quel fatale anno di fermento rivoluzionario che fu il 1848, sarebbe stato del tutto rassicurante e il suo contenuto fiducioso (a meno che a trattare l’argomento non fosse stato John Ruskin, che già allora scorgeva nubi all’orizzonte, sia pure nel chiarore di un’aurora). La maggior parte delle persone colte un secolo fa credeva che la tecnica, così come si esprimeva in un dilagare di nuove invenzioni, fosse quasi sinonimo di civiltà occidentale. Che lo fosse o meno, all’epoca, esisteva un rapporto positivo tra il progresso tecnico e le conquiste dello spirito umano.

Molta di quella fiducia persisteva ancora al tempo della mia giovinezza: ingenua, eppure in un certo senso deliziosa, come quella di un bimbo concentrato su un giocattolo che può tuttavia scientemente decidere di distruggere dopo un paio di giorni. Questa sensazione è legata simbolicamente in me a una delle lezioni che il mio vecchio professore di chimica, Charles Baskerville, era solito tenere sull’acido solforico. In questa lezione, con soltanto la più garbata riserva di ironia, egli avanzava l’idea che la produzione e il consumo dell’acido solforico potessero essere presi come un indice di civiltà; e rappresentava quindi una gara statistica triangolare tra Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti, che iniziava con l’Inghilterra in testa verso la metà del XIX secolo e finiva — e a questo punto la classe prorompeva sempre in uno spontaneo applauso — con la vittoria degli Stati Uniti. Nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, il calore umano di quella dimostrazione ne superò la mancanza di logica. Forse è troppo presto per dire che questo atteggiamento nei confronti della tecnica è stato completamente modificato. Ma ad ogni modo nel corso della attuale generazione si sono levate voci di disapprovazione che non provenivano soltanto dagli ultimi seguaci di Rousseau. Oggi è proprio nei settori in cui le conquiste scientifiche sono state più determinanti, in cui la tecnica si è più perfettamente raffinata — e in modo particolare naturalmente nella fisica nucleare — che la maggior parte delle più insigni personalità del mondo scientifico hanno cominciato a lasciar trasparire i segni di una profonda ansietà nella considerazione delle conseguenze sociali del progresso tecnico.

La possibilità che la tecnica potesse essere usata a fini malvagi non turbava apparentemente i nostri antenati dell’epoca vittoriana. Ma nessuno spirito razionalmente obiettivo può considerare tutto quel che è accaduto nel mondo, da Liverpool a Tokyo, le dozzine di città sventrate, i milioni di vite sterminate freddamente, senza mettere in dubbio l’ingenua fede per cui la conoscenza scientifica applicata all’invenzione tende, secondo le parole di Bacone, ad alleviare la condizione umana. La prima delle invasioni barbare si è svolta sotto i nostri occhi; e differisce da quelle che sopraffecero Roma poiché i barbari sono venuti completamente e non parzialmente dal cuore stesso della società che subisce l’attacco. È mai possibile — cominciamo a chiederci — che il nostro eroe da commedia, il superuomo, non abbia né l’intelligenza, né la sensibilità morale necessari perché gli si affidino gli strumenti che la scienza ha ora messo a sua disposizione? Malauguratamente, l’epoca che ha prodotto l’energia atomica ha prodotto anche la mente pervertita di un Hitler, che fu capace, anche senza le bombe atomiche, di concepire la tortura e il massacro di circa sei milioni di soli ebrei, per tacere della morte e delle mutilazioni inflitte a milioni di persone di altre nazionalità.

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